domenica 25 giugno 2006

Giovedì 8 giugno 2006

Mattino. Qualche tensione in barca. Ovvio.
Penso a come sono, a come non mi piace dover seguire i ritmi di un’altro, a come mi è necessario avere aria attorno a me, a come ho bisogno di sapere in anticipo quali sono i miei compiti ed i miei progetti. Non amo perdere tempo né “socializzare”. Amo leggere e scrivere e starmene per i fatti miei se ne ho voglia. Ovvio.
Penso alle organizzazioni, alla leadership. La barca è un posto piccolo per vivere in tre.
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Ho preso il traghetto per passare lo stretto e venire a salutare una persona. Ne valeva la pena. E adesso sono qui, ancora a Singapore che per me vuole dire qualcosa: città di sogni e di peccato. È notte, ed io mi siedo in una eating house, la più sordida che trovo, a guardare la gente di Dankar Road: Cinesi e Indiani, qualche nero, io.
Case antiche come si può essere antichi a Singapore. Una notte lunga, che terminerà non si sa quando, e interessi, desideri, progetti incomprensibili, corruzione tutto intorno a me.
La televisione blatera una vicenda d’amore e sangue e bambini. Qui i vecchi vivono una vita davanti ad un piatto di riso e ad una bottiglia, e i giovani anche, ma con qualche illusione che ancora non hanno perduto, chissà: inseguendo sogni di ricchezza e di donne.
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Daniel se ne è andato. Ha preso con me il traghetto fino a Singapore e si è fatto lasciare all’aeroporto. Giovane inquieto, gentile: un buon compagno di viaggio.
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Ho incontrato Rohanah, mussulmana, quasi quarantenne e piena di speranza forse sul punto di svanire. Sorpresa: la vita non ha ancora spezzato la sua minuta eleganza perbene.
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Hotel sordido. Mi offrono una ragazza indiana. Esmeralda dice che non le importerebbe. Così dice, ma non le credo. Esito. Mi sento un fuoco nella schiena. Vado a dormire. Strana donna la mia.

Venerdì 9 giugno 2006

Primo traghetto della mattina per tornare a Pulau Batam. Tanta fretta. Chissà perché? Partiremo? Non partiremo più? Siamo in due soli. Sulla barca qualcosa di nuovo si rompe in ogni momento.
Pioggia furiosa, vento a 40 nodi. Appena molla gli ormeggi il traghetto è trascinato via. Bello. Ma poi dall’altro lato del canale, mezz’ora di navigazione, tutto è tranquillo. Le isole fanno così, piene di furia dal lato sottovento, ancora addormentate sull’altra costa.
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Mark è nervoso e non una buona compagnia. Lavora con gesti rapidi e secchi, con rabbia. Comincia ad odiare questa barca e la tensione gli fa fare scintille. Io faccio il bucato. Piove. È la stagione dei monsoni. Se passeremo l’equatore il tempo ritornerà bello per poi peggiorare ancora, e molto di più, quando andremo a sud verso l’inverno. Se mai andremo a sud verso l’inverno.
Mark lavora all’alternatore o al motorino di avviamento. Lui ed il meccanico indonesiano sono coperti di olio. Non ho mai sentito tante imprecazioni come in questi giorni, sempre meno in scherzo e più con vera rabbia.
Io scappo un po’. Metto la mia roba da sub sul gommone e vado fuori a cercare un punto decente per immergermi. Sono solo, esploro la costa poco profonda fuori dal porto turistico. Una povera costa, ma la vita è diversa da quella di Perth. Un elegante nudibranco nero scivola via, e gasteropodi di quelli che, quando si incontrano morti, si tengono le conchiglie per ricordo.
Risalgo sul gommone dopo quarantacinque minuti. Rabbrividisco nella mia muta di nylon che si agghiaccia in un momento al vento senza sole.
Pescatori su barche di legno. Mi avvicino al villaggio sulla costa, chiacchiero con la gente, qualcuno parla un po’ inglese. Poi torno al porto nella luce che scende (torno solo perché la luce scende) a risentire la tensione di un’avventura incagliata.

Sabato 10 giugno 2006

Il meccanico è in città alla ricerca di un solenoide che funzioni a dodici volt e non a ventiquattro come quello che hanno tentato di far funzionare ieri (che infatti non funzionava e non si capiva il perché. Per qualche strano motivo i solenoidi sono tutti uguali e bisogna leggere i caratteri piccoli per capire davvero che cosa ti sei portato a casa. E gli Indonesiani non capiscono mica sempre l’Inglese colorito di Mark.
Io vado sull’albero ad annodare due carrucole per montare un sistema di cime che ci aiuti a tenere la randa ordinata quando la abbassiamo (si chiama lazy Jack in Inglese, Dio sa come si chiama in Italiano).
Poi arriva il meccanico. Bene. Metto due bombole nel gommone, prendo la radio portatile e vado alla piccola isola di Nongsa. Ho guardato la carta nautica, la profondità è quella giusta, deve essere un posto giusto giusto per fare un’immersione.
Non dico nulla, ma immergermi da solo in un posto sconosciuto mi dà un brivido sgradevole, devo farmi forza un attimo per lasciarmi andare di schiena giù dal lato del gommone. È molto improbabile, e poi me lo avrebbero detto alla marina quando ho affittato le bombole, ma c’è un fiume pieno di mangrovie che sfocia proprio qui. Sulla carta, un posto perfetto per incontrare un coccodrillo d’acqua salata, bestie immonde, enormi, pericolosissime.
L’acqua fresca mi accoglie. L’aria esce a bolle dal mio erogatore con un crepitio leggero. Mi guardo alle spalle. Visibilità pessima ed acqua torbida. Scendo lentamente verso il fondo.
L’acqua qui del canale di fronte a Pulau Batam è torbida e infida, piena di correnti disordinate e vortici, come accade negli stretti dove le acque si accalcano premendo prima in una direzione e poi in un’altra ad ogni cambio di marea. E poi è sporca, piena dei rifiuti abbandonati dalle navi, ma più ancora dalla gente che non ha cura delle spiagge e del mare. Ma in mezzo a questa poco attraente confusione, le icone dei mari tropicali: i pesci pagliaccio al riparo dei loro anemoni, grandi ventagli di corallo che con lunghe dita filtrano l’acqua che scorre, graziosi pescetti a grandi pois e crinoline che si muovono tutti mentre nuotano attorno al loro cibo.
Mi abbandono in assetto neutro, immobile, sospeso nella colonna d’acqua come se fossi anch’io un pesce. O un rifiuto.
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Mentre nuoto mi trascino il gommone per la cima, così posso andare dove voglio senza preoccuparmi troppo di dove vado ed in un qualunque momento mi basta risalire per uscire dall’acqua, ne dovessi avere necessità.
Ma... che succede? Non riesco più a muovermi! È come se qualcuno, sedici metri più in alto mi stesse rubando il gommone, la cima mi scappa di tra le mani. La afferro con forza. Devo vedere cosa succede. Pinneggio per risalire, più in fretta di quanto non dovrei. Il computer al mio polso suona e si lamenta: troppo in fretta! Troppo in fretta! Con un braccio alzato ed una mano salda sulla cima attraverso la barriera tra l’acqua e l’aria.
Sono pronto a difendermi. Ma non c’è nessuno. Solo vento e corrente che ci trascinano a loro agio. Stupido Vittore, avrei dovuto accorgermi che non c’era rumore di motori. Ma anche così, cosa sarebbe successo se la cima mi fosse scappata tra le mani? Sarei riuscito a riprendere il gommone da qualche parte o sarebbe finito su un qualche altra isola lontana?
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Torno alla marina. L’aria è fredda sulla mia muta bagnata. Il cielo nero tuona e lampeggia, tra poco pioverà.
Scommetto tra me e me: arriverà prima io o la pioggia? Vedremo. Vado più veloce che posso con il piccolo fuoribordo. Mi chino per ripararmi dall’aria e forse, chissà, anche per andare più forte, come un bambino.
Ma il motore rallenta, dà qualche colpo per pochi secondi, sempre più debole e poi si spegne. No... Dio mio che idiota: senza benzina!
Potrei chiamare Mark con la radio, ma poi? Meglio toglermi da solo dagli impicci, così mi rimetto la maschera e le pinne e mi lascio cadere nell’acqua ancora una volta. Con la mia brava cima tra le mani ed un po’ di pazienza: sarà forse un chlometro, forse un po’ più.
Entro in porto tra la curiosità della gente.
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Nagoya, centro città. Bevo un caffè, anzi un kopi nero e denso, nell’unico ristorante in cui non c’è accesa la televisione sulla partita dei mondiali di calcio.
Sono riuscito a telefonare a Federico. Oggi ha finito la scuola, per l’ultima volta. Gli restano gli esami, poi la vita da adulto.
Un granchio a cui hanno spezzato una chela, un granchio coraggioso, ha cercato di sfuggire dal cesto in cui lo esponevano in vendita. Forse è legato, deve esserlo perchè è impigliato così sul vuoto e penzola attaccato per l’unica chela, e si aggrappa pieno di angoscia con le inutili zampe posteriori al tubo di metallo del bancone. Un uomo piccolo con i baffetti e la sigaretta penzolante in bocca si prende gioco del granchio e lo stuzzica, ma ancora con prudenza perché un granchio di queste dimensioni, anche ridotto in questo modo, incute rispetto. Lo stuzzica e ride. Se solo il granchio avesse due chele, o non fosse legato, o fosse nell’acqua, l’uomo con i baffetti e la sigaretta rabbrividirebbe. I granchi nell’acqua fanno paura: combattono.
Questa povera creatura è stata sconfitta. Un altro uomo le si avvicina. Ha uno sguardo buono, con una luce di pietà. Un ragazzo coraggioso afferra il granchio da dietro il carapace e lo appoggia dentro alla cesta. Grazie fratello ragazzo. Buona notte granchio coraggioso. E a te che ridi e fumi: ricorda che il dolore è eterno e sacro, e che a turno lo scopriamo tutti.
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Mentre venivo in città Esmeralda ha fatto l’amore con me al telefono. Parliamo. Siamo audaci e ci spaventiamo a vicenda, ma ci riempiamo di un sentimento lacerante di desiderio e peccato che ci fa esplodere.
Io penso alle ragazze del porto che sognano amore, o che fanno l’amore per poco denaro e che forse, se potessero, non lo farebbero più. Mi piacciono. Mi siederei con loro a parlare, sono pieno della necessità di incontrarle, di amarle perdutamente. E ne ho il terrore.
Sono strano: il desiderio di portare a letto una donna senza troppe storie e senza troppi pensieri convive in me con il più innocente animo romantico, pronto al sacrificio e ad immolarsi per amore. Esmeralda anche è strana. I desideri le fanno perdere l’equilibrio, i pensieri di piacere le attraversano la spina dorsale ed il cervello come ondate bollenti, ha imparato ad essere libera con se stessa ad un punto che non crederei possibile, eppure è compagna gelosa e possessiva.
Batam ha fama cattiva. Un posto che fa per me. Ma la mia stella decide diversamente. Entro in un bel localino col nome in Inglese a bere un succo d’arancia: Club Five. Luci basse, potrebbe essere qualsiasi cosa. Una fanciulla indonesiana, bellissima, ed un nero atletico si baciano su un divano. Un tavolo di bigiotteria ancora da mettere insieme in disordine, come un lavoro abbandonato. La fanciulla si ricompone.
E questo è tutto il losco del locale. La ragazza bellissima, ventenne intraprendente è la padroncina del locale. Ha un seno da cui distolgo lo sguardo per educazione, ma senza riuscirci del tutto.
I due si siedono al mio tavolo. Chiacchieriamo. La ragazza è pulita. Si chiama Adonis e mi parla come ad un vecchio amico. Mi parla di desideri e progetti, perfino mi chiede consigli. Forse ne ha davvero bisogno. Forse ha solo voglia di parlare. Ama il nero atletico con tutta se stessa. C’è in tutto l’aria del primo grande amore, e per questo non cessa di baciarlo.
Il nero atletico è Hanif, un portuale di Singapore trentaquattrenne, gentile, contento della sua bellissima ragazza. Ma non la ama nello stesso modo, e temo che giocheranno il gioco eterno dell’uomo che scappa e della donna che cerca di acchiapparlo.
Parliamo a lungo. Lui è esperto, capisce gli uomini. Lei è una cascata freschissima di ingenuità. Ci promettiamo in qualche modo amicizia, visite, reciproche.
Improbabile. Molto improbabile, ma sempre bello.
La notte è finita, chiudono il locale in cui, oltre me, non è entrato nessuno e mi riaccompagnano insiema alla marina dove la barca mi aspetta. Vogliono vedere come è questo famoso porto da ricchi in cui non sono mai entrati. Le guardie al cancello guardano nella macchina, mi vedono, ci lasciano passare tutti.
Vorrei offrir oro qualche cosa, ma il bar è chiuso. Vanno in bagno a guardare, guardano la piscina. Adonis è eccitata e ride. Il custode di notte alla reception li guarda scontento. Poi guarda scontento anche me: che idea portarmeli dietro. Adonis mi ha lasciato il suo biglietto ed il suo indirizzo di posta elettronica. Il mondo è piccolo, chissà che non ci si riveda.

domenica 11 giugno 2006

Eccoci in viaggio! Il mar Cinese meridionale è di fronte da attraversare. Un buon vento proprio dietro a noi, pioggia a tratti.
Lasciato il traffico del canale, il mare adesso è enorme e vuoto E anche nella sera, solo pochissime luci di via appaiono in lontananza.
Ci attendono lunghi turni adesso che siamo in due, e molta solitudine perché quando uno sta sveglio l’altro riposa. Bene, bene... ho bisogno di silenzio e di tempo per leggere e scrivere.
Lunedì 12 giugno 2006, Mar Cinese Meridionale
Notte. Sono passati due giorni. Il mare è tranquillo, nero e bianco, lucido come metallo sotto la luce della luna. Il vento in fronte a noi ci costringe ad arrancare con il nostro piccolo motore: tre nodi sul terreno, poco più di cinque chilometri all’ora. Ma il buio è luminoso quanto può esserlo un buio e l’aria è piacevole e fresca. Dal ponte vedo lo schermo verde del radar giù in cabina. Un punto luminoso distante a centotrenta gradi. Ma distante che non ne vedo le luci. Siamo soli.
Il mio compagno di viaggio è in gamba, ma non è molto simpatico. Sa tutto lui, e, per quanto lo riguarda è molto contento di se stesso: cosa di meglio poteva riservargli il destino? È un tipo d’uomo che esiste in Australia, e forse anche altrove, ma io non ne conoscevo prima di venire qui. Un Homo faber senza fronzoli, che irride ad ogni raffinatezza e per cui l’emissione di rumori corporali – che accompagna con giocosi commenti - è ragione di grande divertimento, ma con un senso alto, anzi altissimo della propria posizione nel mondo. Un buon Australiano, positivo, efficace, cattivo conversatore ed ottimo bevitore di birra e rum.
Io guardo e ripasso una lezione, di mare e di umanità.
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Nel mare galleggiano cose che raccontano storie. Cose che vengono da chissà dove e da chissà chi. Non sono solo spazzatura.
Ho letto una volta di cose perdute scoperte per caso in spiagge lontane, coperte di alghe e di muco e di crostacei aguzzi. Le correnti.
E quando sei per mare hai tempo per guardare e per lasciare che il tuo cuore galleggi via da te. Sulla corrente. E lascia la tua amarezza disfarsi nel calore, e restare amara, ma molle e non ferire.
Nel blu e grigio infinito ai miei occhi del Mar della Cina, soltanto interrotto da rare piccole creste di schiuma, una leggera ciabatta di bambino rovesciata dalle onde.
La suola di gomma nera mi rattrista, ma poi d’un tratto ecco, capovolta, è una barchetta gialla e verde con l’infradito. Fatta per dare allegria. Sorrido.
A chi? E il lampo di allegria scompare e lascia il posto a nuova malinconia. Dov’è il tuo piede di bambino? Dove l’hai lasciato o barchetta? O ciabatta? Senza più prenderti cura di lui?
E la maternità del mio cuore si preoccupa.

Martedì 13 giugno 2006, Mar Cinese Meridionale

Notte. Mi piace la notte in barca, mi piace la luce e mi piacciono il silenzio e la solitudine.
Guardo l’acqua scura e penso. Penso a Pascoli: si beve? Penso a Lord Jim, a un capitano duro come il ferro che si butta nel mare con pesi nelle tasche per non poter più lottare. Chissà come deve essere cadere. In fondo in fondo è la stessa acqua in cui ci immergiamo ogni giorno, con quella frustatine fresca della pelle che si bagna. Non amichevole, però.
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Oggi ho imparato che non si può stare sotto coperta quando si è di guardia se non si accende il radar. Mark dormiva ed io stavo cucinando. Il mare era vuoto. Il tempo passa in fretta quando si fa qualche cosa. E tutto ad un tratto, è lì, enorme e vicina. Una nave grande come una montagna, bellissima, silenziosa e potente, che con ogni probabilità non si è accorta e non si accorgerebbe di noi neppure se ci toccasse.
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Il Mare Cinese Meridionale ha un grande nome. Ed è anche un grande mare, ma non un oceano. Dal di fuori l’acqua è acqua, buona per viaggiarci, buona per pescare, buona anche, se Dio vuole, per morire.
Ma poi c’è il fattore profondità. Questo mare è uno di quei mari che sono capaci di seccarsi quando c’è una glaciazione e che gli uomini attraversavano con pochi mezzi. Una strada più che una barriera. È una pianura cinquanta metri sotto l’acqua da cui emergono le montagne di Giava e Sumatra, e delle altre migliaia di isole dell’Asia del sud.
Il mare è umano, in fondo in fondo è “geografia”. L’Oceano è oltre le colonne d’Ercole, ed ha gli abissi. E perciò è mito e scienza naturale.

mercoledì 14 giugno 2006

La gente ha tante facce, e tante qualità, e tanti orgogli diversi. In un piccolo mondo chiuso accadono molte cose. Piccole, ma accadono.

Giovedì 15 giugno 2006

Anche troppe. Sono un po’ troppo vecchio per gli sgarbi.
Forse ha ragione lui, forse in mare è così, ma a me non importa. Io detto le regole di chi entra nel “mio mare”: gente piacevole con cui vivere avventure, gente con poesia.
Che i “marinai veri” si adeguino.
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Intanto è quasi l’alba e ci avviciniamo alle sagome scure di Kalimata. Non piove ma lampeggia in lontananza e si sentono tuoni lontani.
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h. 7.23
Dopo nubi che coprivano l’orizzonte e la pioggia che copriva di “rumore” lo schermo del radar, è venuto il giorno. Un’alba plumbea. Il faro dell’isola di Serutu non funziona, ma ormai c’è luce a sufficienza per distiguere chiaramente la sua torre alta di ferro bianco ed il villaggio di pescatori sulla spiaggia più in basso.
Karimata è la maggior delle isole di un arcipelago sulla costa occidentale del Borneo (01°38 S - 108°49 E). Ogni roccia che esce dall’acqua è coperta di foreste dense ed ininterrotte. Non si vedono, dal mare, tracce di terra coltivata, solo alberi e villaggi di pescatori.
Pulau Karimata – Kulumpang village
Siamo scesi al villaggio. Sommersi di bambini e ragazzi, e di gentilezza. Baracche in legno, vita semplice quanto si può immaginare, e povertà e malattie, ma risate. Dio mio, in questa giornata di sole questa gente si diverte e ride.
I bambini ci vengono intorno e si affollano per farsi fotografare e per guardare alle foto nei minuscoli schermi delle nostre macchine digitali. Mark li attira a frotte.
I bambini sono bellissimi. Gli adulti meno, come succede ai poveri. L’età di questi uomini è un mistero, o quella di questa vecchia gravida.
Molti non sono mai usciti dal villaggio, o dall’isola. Vanno solo al largo per pescare. Vivono di pesce seccato e di null’altro, e di sigarette che fumano anche i bambini di forse cinque anni.
Un giovanotto gira per le capanne con una partecipazione di matrimonio che distribisce ai suoi amici... a tutti, naturalmente. Riti della vita.
La gente spesso non si siede, ma si accuccia sui piedi come su una turca. E sta li a chiacchierare, magari su un palo di legno. Quasi impossibile. Devono avere muscoli d’acciaio in quelle gambe.
Nel pomeriggio ci invitano a giocare a pallavolo... a pallavolo! Che stranezza. Hanno una rete tesa dietro le case e giocano tutti i ragazzi di Kulumpang. Le ragazze non giocano, guardano e ridono. Non giocano malissimo. Certamente sfiguriamo io e Mark che non sappiamo giocare. Ma ridono di noi con gioia. Finalmente qualche cosa che non sappiamo fare. Una vittoria morale.
Ridiamo anche noi. Un momento di divertimento, come ho raramente.
La chitarra... un ragazzo vestito bene ha una chitarra. Penso che sia il maestro del vllaggio. Ci mostra la moschea con aria da chi se ne intende. Va al pulpito, ma non ci lascia entrare, nemmeo scalzi. La sua chitarra manca di una di un capotasto, un paio di corde sono sbagliate ed il mi cantino ha una giuntura in cui due corde sono legate insieme. E naturalmente non ha nulla che assomigli ad una accordatura. Ma la suona, e canta. Capisce che qualche cosa non va, ma non sa cosa. La chitarra sembra pure una chitarra, di quelle viste in tv. Perché naturalmente la televisione c’è, ed c’è un gruppo elettrogeno per produrre energia per la televisione. Solo per quella sembra, perché alla sera il villaggio, visto dalla nostra barca, è a buio.
Ben Rahaban viene alla barca. Parla un po’ di inglese. Poco, pochissimo, ma cerca in tutti i modi di parlare e di imparare. Gli promettiamo un DVD con tutte le foto che abbiamo fatto nel villaggio. Ma non c’è la posta. Bisogna mandare le lettere nel Borneo, e andranno poi i pescatori ogni tanto. Sembra di capire.
Gente da capire. Con un modo di esistere che ha una sua forza, anche se i bambini muoiono. Da guardare e non toccare per timore di rovinarla e di trasformarla in uno slum, in una periferia sordida della civiltà.
Vorrei tornare un giorno.

Sabato 17 giugno ’06

Nella mia vita di marinaio quello che per me ha sempre contato davvero sono stati i porti, non il mare: i porti pieni di rumore, di cibo, di gente che vive vite diverse.
Ma è poi così per tutti. È stato così per anni e per secoli: la varietà delle cose umane era quello che muoveva la fantasia. La libertà della diversità si conquistava a fatica. La fatica era il viaggio, lentissimo.
La fatica del viaggio oggi è ridotta alla immagine pallida di se stessa. Forse è un bene. Ma certo la lontananza si è ridotta, e così anche la varietà delle cose umane. Che probabilmente è un male.
I porti: affermazioni contraddittorie. Ogni porto una vita possibile da inventare, cambiando di vestiti ed abitudini, bevendo tè al posto del caffè cambiando amici, amori e sogni. Vorrei essere... e mi invento vite intere. E ci credo. Facciamo che io ero... come i bambini.
E tra i porti: i viaggi, come una pausa lunga tra una strofe e l’altra. Come un saluto pieno di rimpianto per un futuro abbandonato, o di sollievo per una evasione ben riuscita.
Viaggi diventati facili. Viaggi sul tappeto magico, in cui basta volerlo e sei già partito. E arrivato. In cui la unica cosa che è rimasta davvero difficile è il voler partire: prigionieri ciascuno di una cosa diversa.

Domenica 18 giugno 2006

Il mio viaggio per una volta è diverso: lento come ai vecchi tempi, e faticoso.
La vita di bordo non inizia alla mattina, perché non finisce mai. Inizia all’inizio e finisce alla fine del viaggio.
La barca va, con le vele o con il motore, o con entrambi, ma va ostinatamente attraverso la linea del mare che sembra senza fine. Va da sola, non è come una macchina che bisogna sempre tenere la mano sul volante. Ma bisogna tenere un occhio aperto sul mare ed un occhio su qualunque altra cosa che si sta facendo. Perché l’unico rumore sul mare è il tuo, quello delle onde e quello del vento. Le grandi navi che potrebbero mandarti nel fondo del mare senza neppure accorgersi di te, escono dal nulla, da ore ed ore di nessuno, e ti scorrono a fianco come ombre belle e minacciose. Probabilmente non si sono accorte di te. Come sono magnifiche!
Bisogna tenere un occhio aperto di giorno e di notte, quando la luce è forte e stai sul ponte con gli occhiali da sole, e quando stai lì a guardare il buio per tre ore e vorresti essere a letto. Soprattutto quando piove. Perché ai tropici piove anche se fa caldo. E quando sei bagnato e nel vento, non fa più neanche caldo.
E allora si fanno i turni e non si dorme mai più di un paio d’ore. Ci si sveglia a vicenda quando il mondo è più lontano e potresti dormire per ore. Si sorride per educazione.
E poi la barca non è più la stessa cosa di quando vai a Rottnest Island per il fine settimana. Un po’ di campeggio al sabato e alla domenica fa sempre piacere. Ma in un viaggio, anche di poche settimane, le cose sono diverse: la barca detta le regole e tu non hai scelta che di accettare. In mezzo a questo nulla, la barca è la tua signora, con le sue stranezze. Con questo gavone che gratta quando ci passi di fianco, e infatti mi sono ferito e la ferita si è infettata, e continuo a sbatterci contro ancora ed ancora. Con questo boccaporto (?) che perde e mentre vai alla tua cuccetta ti lascia cadere due gocce di acqua salata sul collo. Tanto sei salato dappertutto, non fa differenza.
E neanche il mare è lo stesso di quando vai a Rottnest per il fine settimana e hai guardato le previsioni del tempo sul sito del Bureau of Meteorology e sai più o meno tutto quello che succederà. A giugno i monsoni soffiano da sud nel mare della Cina Meridionale, e da Est nel Mare di Giava. Vento, vento con cui lottare tutto il tempo, che soffia in direzione opposta alla nostra. E allora motore e bolina! E quando per grazia di Dio la marea è con noi, il vento contrario alza le onde alte e ripide e la mia cabina di prua si alza alta nel cielo e ricade quattro o cinque metri con un tonfo. Ed io dormo aggrappandomi per non cadere.
Faccio tutto aggrappandomi per non cadere, da giorni, e se mi distraggo cado.
Si muovono molti muscoli per bilanciarsi.
E poi c’è l’acqua. O piuttosto, non c’è. C’è solo quella che ti sei portato dietro, e non è mica tanta. E così si fa tutto con l’acqua salata, dal lavare i piatti al lavarsi i denti. AZ15, lo fanno ancora?
Ma soprattutto c’è l’assenza del telefono e di internet. C’è l’assenza di comunicazione, una distanza sconosciuta dalle persone che mi stanno a cuore, più grande di quella che ho sperimentato in tanti anni da cui sono via dall’Italia. Io intanto scrivo nella notte, nel mio computer isolato dal mondo. Un bacio ai miei figli grandi e piccoli. Un abbraccio alle mie famiglie. Anzi alla mia famiglia.

Lunedì 19 giugno 2006

Benedetti da un giorno senza nuvole e da vento moderato; perfino un po’ di corrente a favore. Dovremmo essere a Pulau Bawean domani matina presto, e restarci lo stretto necessario per comprare diesel e qualche altra cosa. Mark dice che c’è un paese vero, con i negozi. Non come a Pulau Karimata. Chissà che non riesca a telefonare.
Anche oggi abbiamo avuto la nostra parte di emozione. Fumo nella stiva, tutto nero e sporco di fuliggine. Un manicotto che perde, ed il nostro motore sembra uscito da un incendio. Mark lo “sistema” con un po’ di colla speciale, foglio adesivo di alluminio e fibra di vetro... ah, e con un attaccapanni di filo di ferro. Che Dio ce la mandi buona.

martedì 20 giugno 2006

Pulau Bawean è anche lei, a suo modo, un posto da ricordare.
Non è un’isola selvaggia di pescatori gentili. Non è un luogo vibrante culture esotiche e colorate. È un’isola come ce ne sono tante altre in Indonesia, un’isola senza grandi città e senza incanti. Un’isola i cui la gente vive e lavora di pesca, di commercio, insegnando, facendo il poliziotto, lavorando in banca, vendendo gasolio alle barche di passaggio.
Ma un isola in cui ci vengono solo gli Indonesiani. E gli Indonesiani si girano per la strada a guardarci passare, due vecchi bianchi barbuti e in disordine.
C’è una vita qui che ruota intorno alla moschea e ad obiettivi quotidiani diversi e smili ai nostri. Molte donne con il velo in testa, come è costume nel sud-est asiatico mussulmano, ma non tutte. Una sola era velata sul viso, una ragazzina, ma con due occhi che ridevano. Mi ha sorriso con gli occhi, forse divertita che la guardassi, forse anche lei, come tutti gli altri, curiosa e sorridente verso gli stranieri.
Io quando viaggio guardo le donne. Ci sono poche cose che in un Paese mi interessano tanto come le donne. So che non sta molto bene dirlo così, eppure non riesco a farne a meno. E ho scoperto che ovunque le donne sono graziose in qualche modo loro. E mentre guardo la loro femminilità pernso a come sarebbe vivere lì con una di loro, la più bella, la più dolce, la più saggia. E se mi guarda le sorrido.
Abbiamo cambiato un po’ di dollari, abbiam mangiato cibo ordinario dalla ristoratrice meno gentile della città, e non abbiamo trovato birra, con disappunto dello skipper che –da vero australiano –la consuma in abbondanza. Isola seriamente mussulmana.
Mark qui conosce un tipo strano che ci ha procurato il caburante – venduto a singoli litri contati con il mestolo - e ci ha accompagnato nei nostri pochi acquisti. Ha una motocarrozzetta, una specie di apecar con cui ci ha portato in giro per la città, dal cui traballante cassone abbiamo guardato questa vita tanto “normale” della provincia indonesiana.
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Pronti a ripartire. Anzi ripartiamo per davvero, ma il motore si spegne a forse un miglio dalla costa. Ritorniamo a vela, ancoriamo in fretta. Mark si butta al lavoro imprecando. L’ancora non tiene ed andiamo alla deriva verso il grande molo del traghetto o verso le rocce poco più sotto, o verso la barriera che è ovunque in questo porto disordinato e di cui non abbiamo una propria carta nautica (chissà se esiste). Diamo più catena. Nervosismo. Qui c’è da affondare la barca per davvero.
In qualche modo Mark fa ripartire il motore purgandolo di un po’ d’aria che vi era entrata. Fuma, beve, bestemmia e trova una soluzione. Ma perde il controllo di sé e diventa furioso.
Alla fine di questo mese e mezzo insieme cercherò di scrivere tra me e me cosa mi piace e cosa non mi piace di quest’uomo. Bravo mainaio, per certo, ma con un qualche cosa su cui riflettere.

Mercoledì 21 giugno 2006

Che pessima notte! Pioggia, vento, stanchezza! Ma siamo in viaggio verso Bali. Abbiamo fatto 1350 miglia in venti giorni. Ancora un migliaio prima di arrivare in Australia dove prenderò un autobus per tornare a casa a Fremantle. E per tornare in ufficio, prima che mi licenzino.
Se tutto va bene avrò imparato qualche cosa di barche a vela, solo qualche cosa. E avrò accumulato tante miglia e tante ore di guardia nel mio logbook da potermi presentare a fare entro breve il mio esame da yachtmaster.
Forse le cose si mettono in fila da sole. Forse la vita non è tanto difficile, e scegliere è davvero una possibilità.
Ma intanto stamattina la mia incapacità di marinaio si è rivelata. Al momento di alzare il fiocco piccolo, quello che si usa con cattivo tempo e che non so come si chiama in Italiano (forse “tempestina?”) aveva le scotte infilate sotto alla cima con cui avevo legato il gommone sul ponte. Slega, rilega, non il tipo di cosa che si fa volentieri sul ponte in mezzo alle onde ed al vento legati con una imbragatura, quando la si poteva fare bene al porto qualche ora prima. È che non avevo visto, non avevo pensato. È che non so abbastanza.

Giovedì 22 giugno 2006

Che pessima notte la notte scorsa! Un mal di pancia che, letteralmenre, ho pensato di poter morire, con un bagno che si deve pompare a mano per far andar via le cose mentre io mi sentivo svenire. Cibo avariato? Sporco? Forse. Il pronto soccorso della barca ha solo cerotti, disinfettante e panadol. Mmmm, manca qualche cosa!
E che giornata oggi! Io inizio debole come un bimbo, nonostante la indisposizione ma mi sono fatto la mia notte a pezzetti.
Comunque il sole sorge puntuale. Ma il motore si ferma. La barca, inclinata per il vento, ha fatto sì che da uno dei serbatoi tutto il carburante rifluisse nell’altro e che nel motore, alimentato da entrambi, entrasse dell’aria. Ma accidenti, questa è una barca a vela, come può essere disegnata in un modo che se va di bolina qualche ora dopo bisogna fare tutto questo servizio al motore? Andiamo solo a vela per un’oretta (in direzione di fantasia, solo per seguire il vento e non lasciarci andare alla deriva. Intanto Mark insulta e beve e calcia la barca, ma capisce che cosa è successo, purga i filtri e gli iniettori e fa ripartire la baracca.
Ripartiamo, quasi convinti che Bali non sia poi tanto lontana. Ma Bali è lontanissima! Senza preavviso, senza ragione apparente lo strallo di prua, a cui è attaccata la tempestina si strappa in cima all’albero e cade rumorosamente sul ponte. Mark è furioso, prende una bottiglia di vino del padrone della barca e la stappa. Ce la beviamo alla sua salute.
Ma intanto questa è la realtà: in questa barca tutto va in pezzi per mancanza di manutenzione. Due cavi di acciaio si sono già strappati. Per quello che sappiamo, quelli che restano non sono meglio di quelli che se ne sono andati. Non siamo in condizioni di andare a vela che con un vento delicato come un fiore. Se il tempo si mettesse al peggio, rischieremmo di disalberare, lo scenario peggiore, la paura di chi va a vela,
Ed il motore è pieno di toppe, nastro adesivo e filo di ferro. Fa pena a guardarlo.
Per satellitare diamo la nostra posizione alla moglie di Mark che ci segue dall’Australia. Gliela daremo ogni paio d’ore, nel caso in cui succeda qualcosa. La zattera è stata revisionata quindici anni fa: probabilmente insieme all’alberatura. Legati nelle imbragature smontiamo il cavo spezzato e lo gettiamo in mare. Ripieghiamo la vela e la riponiamo più o meno ordinata nella stiva. Riduciamo un po’ i giri del motore, tanto per non affaticarlo troppo.
Ed è subito sera.

venerdì 23 giugno 2006

Mar di Bali
Questa mattina presto il vulcano di Bali si vede in lontananza alzarsi sopra una linea bassa di nubi a cinquanta miglia di distanza. Il vento è forte da sudest, proprio contro di noi, qualcosa più di venti nodi. Avanziamo a fatica, ma avanziamo.
La mia cabina sa di umido. Le mie care liquirizie sono un catrame nero e molle, il mio letto non è mai davvero asciutto. Ogni tanto, di rado, spruzzi entrano dal boccaporto.
Andare a motore contro il vento per fare prima. La barca sale sopra le onde con la prua diritto verso l’alto, e poi, passata la cresta, si appoggia con tutto il suo peso, ricade con il muso verso il basso, scivola sulla schiena dell’onda, e poi risale quella successiva. È bella e agile, e sicura di sé.
Ma a volte il periodo dell’onda è troppo breve e l’onda troppo ripida. La prua ha appena cominciato a scendere che la nuova onda le si infrange sul ponte, a prua. La barca rabbrividisce, offesa, e l’acqua si alza in schiuma violenta, e preme, e con la sua pressione entra dove può, anche nei boccaporti chiusi, anche nella mia cabina.
..........
Mi sono svegliato alle sette. Bali già si vede. Chiacchieriamo, c’è ottimismo.
Ma alle otto in punto il motore si ferma. Prendo il diario di bordo per scrivere la posizione mentre Mark apre il vano motore.
Bali si vede ma cominciamo ad andare alla deriva: due nodi a nord ovest, verso il mare aperto.
Issiamo timidamente il fiocco. Io sto al timone, tanto per stare nel vento e evitare il rollio senza senso della barca alla deriva che rende impossibile lavorare. Mark lavora al motore.
Eppure stavolta il motore non riparte. Forse gli abbiamo chesto troppo. Forse... in questi serbatoi è impossibile controllare quanto gasolio è restato, forse abbiamo fatto stime errate dall’inizio e siamo solo, stupidamente, senza gasolio. Se è così ci restano venti litri di gasolio: sei ore e mezza di motore: non più di venti miglia in condizioni ottimali.
Non abbiamo scelta: issiamo randa e fiocco, e virando, andiamo più o meno verso sud. Se l’alberatura regge, siamo sulla strada buona. Se non regge, allora siamo nei guai.
Issare randa e fiocco in una barca alla deriva in vento forte non è semplice come accendere il motore. Lavoro febbrilmente all’albero. Questa randa che non sale... drizza incattivita. Scivolo, mi aggrappo nel rollio che accompagna ogni onda, butto tutto il mio peso sul winch che non va... sì, no... sì. Pensiero stupido: cosa mi direbbe mia madre se mi vedesse qui? Mi vengono in mente le sue parole di raccomandazione, con la sua voce: Sta attento.
Starò attento. Se Dio vuole, e se quel po’ di conoscenza e di forze che abbiamo ci permetteranno di andare avanti, andremo avanti.
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h.1800
Le vele hanno retto. Siamo scesi a sud ed il corpo dell’isola ci ha protetto dal vento e dalle onde che sono diventate buone e gentili.
Abiamo messo i venti litri di diesel nel serbatoio, purgato il motore e provato, ma non funziona bene, si spegne, risucchia aria da qualche parte. Ma siamo in vista delle luci del porto di Singaraja, l’ancora è libera e pronta per essere calata, ma l’echo sounder ancora non legge il fondo.
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No, no, no... il motore non funziona. Si accende, muore, si accende... Non abbiamo scelta, entriamo a vela nel porto che ormai è scuro. L’unica carta che abbiamo è una carta elettronica povera di dettagli ed imprecisa, e attorno a noi c’è barriera, ci sono reti da pesca e due relitti. Una idea del posto in cui siamo, nulla di più.
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Ma alla fine siamo ancorati. Siamo a Bali. Il Muezzin canta dalla moschea iluminata ad ovest del faro. Poi, terminato il rito del venerdì che muore, viene il silenzio. Breve, perché riprende ad est del faro la musica squillante e strana di un’orchestra gamelang nel tempio indù, la musica di Bali.
Penso al nostro primo viaggio a Bali, a Federico alla ricerca dell’oriente.
Sampang scivolano silenziosi sul’acqua spinti dai remi di pescatori solitari. Una luce calda e tremante dondola appesa a qualche albero a poppa della canoa, ed illumina le loro schiene incurvate nello sforzo.
La vita di Singaraja vista dall’acqua.
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Cose buone di questo viaggio
La gente delle isole.
Le lezioni di mare.
I problemi risolti.
Il cielo di notte, così diverso e così difficile da perdermici per ore, dove ogni tanto ritrovo una stella consueta ed amica. Pensare agli antichi saggi con il naso per aria nell’oscurità.
Il silenzio nelle lunghe ore da solo.
Il pensiero della pancia di Esmeralda, dolce e romantico.
Una lezione sulle relazioni umane da cui non esco troppo bene ma nemmeno troppo male.
Cose cattive di questo viaggio
L’isolamento da Federico con cui non parlo da troppo tempo.
La fatica.
Il sonno breve ed interrotto.
La pressione costante.
La difficoltà ad andare d’accordo.
La fretta di arrivare che taglia via proprio il piacere del viaggio, non la fatica. Questo viaggio richiede un anno, non un mese.

Sabato 24 giugno 2006

Lavori sull’albero. Puliamo, riordiniamo, imbarchiamo taniche di carburante. Il pescatore Hun Sen ci aiuta con il suo sampang, suo figlio Julham impara a trattare con gli stranieri.
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Bali è un’isola di musica. La musica è ovunque, la gente suona per la strada. Alla barca, a poche centinaia di metri dalla riva, arriva un canto, poi una melodia semplice di un flauto di bambù, poi i tamburi di una sfilata gioiosa di mussulmani per una circoncisione, poi i suoni fessi delle campane gamelang, il muezzin. Non c’è silenzio e non si sente che di rado la musica insapore che invade il mondo con le radio ed i CD.
Sono in un paradiso.

Domenica 25 giugno 2006

Abbiamo lasciato Singaraja alle quattordici e quarantacinque minuti di ieri e stiamo per arrivare al porto di Benoa nel sud est di Bali. Una corrente favorevolissima ci ha accompagnato per tutto il viaggio dandoci l’emozione di una corsa a quasi dieci nodi, così che l’ultimo tratto del nstro viaggio si è risolto in meno di ventiquattro ore, senza drammi e senza nuovi problemi.
La barca resterà a Bali per il momento, ha bisogno di riparazioni senza cui affrontare l’ultimo tratto di viaggio per l’Australia – sette o ottocento miglia – sarebbe una sciocchezza.
Sono contento di restare a Bali un paio di giorni e di ritornare a casa entro la fine della settimana. Devo studiare. Esmeralda mi aspetta. Un paio di conferenze da preparare con un po’ più di respiro. Ma questo vuole dire che le “mie miglia” si fermano a meno di millesettecento, e che prima di fare l’esame per yachtmaster devo trovare il modo di fare altre settecento miglia senza spendere una fortuna. O comprarmi finalmente una barca a vela, spendere una fortuna e mettere il cuore in pace.
Mark sta chiamando in questo momento lo harbourmaster sul canale sedici. Bisogna cominciare a lavorare.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Fiuuuu! Da restare senza fiato...

Anonimo ha detto...

Hahaha, marinaio louquinho!!! So' tu'!

Anonimo ha detto...

magnifico
da anni non leggevo un viaggio così