martedì 28 marzo 2006

Rabbia

Lo so Federico, lo so che la rabbia non serve a niente. Anzi, mi sembra di avertelo insegnato io, anche se tu eri un bambino e magari non te ne ricordi.

Grazie per avermi restituito un po’ di saggezza. Ritiro ogni accento rabbioso. Mi trangugio le emozioni che servono a poco quando si tratta di capire i problemi difficili (servono per altro a fare un sacco di altre cose), le ricaccio giù a forza.

Cosa ci resta?

Ci resta un poveretto in mezzo ai guai come tanti altri poveretti (come mi hai giustamente ricordato al telefono ieri sera), e ci resta un problema aperto, un problema che se lo guardiamo dal punto di vista delle relazioni interne alla comunità umana è un problema che possiamo chiamare “politico”. Che è un tipo di problema “pratico”, in cui la teoria da sola non basta, in cui la teoria deve in qualche modo maturare in azione per essere compiuta. Può diventare azione quando e come ricorrano le circostanze, quando e come le informazioni siano sufficienti.

Basta poco: parlare con gli altri è già azione, scrivere un blog è già azione, prendere posizione è già azione.

Ora, lo so come la pensi. Forse hai ragione tu. Forse, in fondo in fondo le cose sono davvero tutte uguali e tutta questa illusione di vita è un lungo sogno in cui galleggiamo in uno spazio privo di coordinate. Ma a pensarci mi viene il mal di mare (a un marinaio come me!) Così non ci penso.

In un qualche senso minore, in relazione soltanto alle forme a priori del mio pensare e non a quello di Dio, a me pare che ci siano cose importanti. Cose su cui possiamo concordare con altri uomini “di buona volontà” (se ci permettiamo di essere di parte). Cose su cui possiamo concordare con uomini che condividono con noi le mappe fondamentali del pensiero, ovvero i valori, le lingue, le parole... qualche cosa.

Ora: la libertà di pensiero (la libertà “religiosa” essendo solo un comma di una libertà più generale) è una di queste cose che a me sembrano importanti. Più importanti di altre.

Sarà vero? Forse no. Ma lo è per me. Lo è a sufficienza per far ribollire il mio cuore di sdegno di fronte ai processi alle idee, per farmi sentire come un dovere quello di alzarmi e parlare. Agire picchiando con le dita sulla tastiera del computer e con le corde vocali sull’aria che mi circonda per farla vibrare nelle orecchie delle altre persone. Qualunque pensiero le mie parole riescano a risvegliare. Che abbiano voglia di ascoltarmi o meno.

Ti riconosco che può essere tutta una illusione. Ma in fondo in fondo il mio parzialissimo punto di vista è una molecola di questo grande organismo in movimento che è il mondo, che forse nel suo insieme avrà un senso. Così penso: se esisto avrò un senso anch’io. E allora parlo.

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